Essere una terra di innovatori, ma senza innovazione: chiamatelo anatema, chiamatela maledizione ma, in realtà, altro non è che una semplice constatazione. Al Mezzogiorno d’Italia non mancano le idee, il problema è la loro realizzazione. Non si tratta di mero disfattismo: è una questione di numeri.
Alla fine dello scorso dicembre, dalle pagine de Il Foglio, Stefano Cingolani ha lanciato un “appello” alla ricerca di start-up, con il supporto di una serie di dati che offrono molteplici spunti di riflessione: “Gli innovatori ci sono, manca l’innovazione ed è anche colpa della difficoltà di comunicare; è vero in generale, nel Mezzogiorno è peggio”. E questa è solo la premessa. Nel Global Innovation Index 2023 di Wipo (World Intellectual Property Organization), l’Italia resta 26esima dopo Malta e prima di Cipro, su un totale di 132 Paesi presi in esame.
La parola start-up è una delle più inflazionate degli ultimi anni: su di essa sono state riversate enormi speranze che, purtroppo, non hanno sempre condotto ai risultati attesi. “Presi dall’ebbrezza del dopo pandemia – ha sottolineato Cingolani – molti hanno visto nella brulicante corsa a inventarsi un’impresa innovativa, originale, immaginifica, i segni di un nuovo miracolo; e adesso restano delusi”. Il 2023 è stato, anche sotto questo punto di vista, “un mesto ritorno alla normalità“. Superata l’euforia, è rimasta la realtà: “La Lombardia ospita il 39 per cento delle start-up, seguita a grande distanza da Piemonte con il 12, Toscana 7,9, Emilia 7,3, molto indietro il Veneto con il 3 per cento”.
Nella maggior parte delle regioni italiane, la presenza di start-up non è significativa e, soprattutto, non si investe abbastanza in innovazione e capitale umano. Eppure questi elementi dovrebbero camminare di pari passo. Nel quadro generale, la Sicilia rimane incredibilmente indietro, con appena l’1,8% del totale nazionale delle start-up. 1,8%, con buona pace di tutte le aspettative degli anni passati.
A rendere più concreti questi numeri, contribuiscono le parole dell’amministratore delegato di Digitrend, Biagio Semilia: “Con Milano c’è un abisso, là è tutto un altro mondo” ha ammesso Semilia, parlando a Cingolani. Attenzione, però, a non leggere questa affermazione come una constatazione fine a se stessa. È, al contrario, da intendersi come un motore per l’azione.
Nel mese di novembre del 2023, Digitrend ha organizzato, in collaborazione con l’assessorato alle Attività Produttive della Regione Siciliana, il Premio Innovazione Sicilia, che ha raccolto oltre 200 candidature: “Ci siamo resi conto di quanto sia vivo questo mondo nella nostra terra e abbiamo toccato con mano la voglia di fare, di mettersi in gioco, di scommettere sul futuro”, ha aggiunto Semilia.
Ed proprio a questo mondo che Innovation Island si rivolge, per essere un punto di riferimento, “creare una community, raccontare le storie di innovazione, raccontare i vari ecosistemi che non riescono ancora a sprigionare il loro potenziale”. Ecosistemi, una parola che non è lì per caso, perché offre la possibilità di ampliare il ragionamento.
Ram Mudambi, Professor of Strategy presso la Fox School of Business and Management della Temple University of Philadelphia, in occasione di una lezione tenutasi proprio all’Università degli Studi di Palermo, ha detto: “Servono i semi, ma serve anche il terreno, un terreno fertile. Se si gettano i semi in un ambiente istituzionale che non è accogliente, questi moriranno e non crescerà nulla”. L’ambiente in cui si opera conta, eccome.
Adesso facciamo un (piccolo) passo indietro e torniamo al punto di partenza: cos’è che non funziona, in una terra di innovatori senza innovazione? Più di una cosa, senza ombra di dubbio, ma forse si può partire proprio dal fatto che non si riesca (ancora) a creare una rete tra coloro che vogliono innovare: “In apparenza – ha scritto Cingolani – l’innovatore è un lupo solitario, invece ha bisogno di entrare in una rete di relazioni plurime“. Le start-up, dunque, possono sì dare misura di un progresso, ma solo se si riesce a dare vita a un circolo virtuoso che chiami in causa tutti gli attori e che non si limiti alla ricerca di contributi dall’alto.
Concetti, questi, che l’economista Enrico Moretti, professore a Berkeley in California, sosteneva già dieci anni fa nel suo saggio “La nuova geografia del lavoro”: “La tipica trasformazione da zona depressa a zona dinamica non ha a che vedere con l’intervento pubblico, ma con imprese locali che crescono e hanno successo. E non è il successo dell’impresa in sé, ma il fatto che genera un ecosistema, un’agglomerazione di altre imprese”. Ecosistema. Eccolo lì, di nuovo.
Non si può sperare che pochi esempi virtuosi si facciano carico di un intero ecosistema e, soprattutto non si può sperare di crescere senza un tessuto solido. Bisogna guardare all’estero, agli investimenti multinazionali: nell’epoca in cui siamo iper-connessi, chiudersi nel proprio mondo dei settori tradizionali, è un ossimoro.
Ram Mudambi sostiene che la globalizzazione e la connettività hanno trasformato il modo in cui la conoscenza si diffonde attraverso le frontiere, con le multinazionali che giocano un ruolo chiave in questo processo. Il Mezzogiorno ha un’attrattività per i grandi gruppi internazionali, ma deve capire come metterla a sistema.
Le regioni come la Sicilia, dunque, possono sicuramente sfruttare questo trend globale, dando valore alle competenze e sviluppando partenariati con istituzioni e aziende internazionali. Domanda e offerta muovono il mercato: se le multinazionali cercano talenti, innovazione e ricerca, connessioni e costi operativi competitivi, esiste chi può darglieli. Questi elementi, in combinazione con stabilità politica e legale e infrastrutture di qualità, possono rendere la Sicilia una destinazione attraente. Secondo gli economisti, le regioni del Sud possiedono un bene prezioso: la conoscenza.
Il pensiero di Mudambi non è astrazione, ma trova una concreta applicazione in quel modello al quale il Mezzogiorno può guardare: l’Irlanda. “Oggi l’Irlanda è un’economia della conoscenza – ha detto -. Non hanno alcuna produzione. Non producono nulla. È tutta conoscenza, tutta ricerca e sviluppo, giusto? Quindi diventano parte dell’economia della conoscenza. Quindi il punto è che una volta che queste cose sono in atto, gli ecosistemi iniziano a svilupparsi. Cominciano a mettere radici. Potresti perdere alcune attività, ma non è così, purché tu abbia un ambiente altamente e sempre produttivo”.
Ecosistema, innovazione, conoscenza: elementi chiave di un ragionamento condiviso che, forse, così tanto condiviso ancora non è. Le grandi evoluzioni richiedono tempo, ma non sono impossibili. È una strada lunga, ma che vale la pena percorrere insieme. Innovation Island è aperto a tutti: è lo strumento attraverso cui chi ritiene che l’innovazione sia un driver per il cambiamento può comunicare idee, esigenze, informazioni e opportunità.