La generazione che rischiamo di perdere. E la Sicilia che rischiamo di non diventare

Nell’ultimo rapporto Svimez c’è un dato che è più politico, più economico e più culturale che pongo all’attenzione: la Sicilia sta crescendo, ma sta ancora perdendo i suoi giovani migliori. Non parlo solo dei numeri assoluti, che pure mostrano un aumento dell’occupazione under 35 nel Mezzogiorno. Parlo di un paradosso più insidioso: la Sicilia forma competenze, ma non le impiega dove servirebbero; crea giovani brillanti, ma li spinge altrove; costruisce capitale umano, ma lo esporta gratuitamente. È il vero spread dell’isola, quello che non compare nei titoli dei giornali ma che incide più di qualsiasi dato macroeconomico.

Il Rapporto lo dice con chiarezza. Crescono gli occupati giovani laureati, ma il primo settore di ingresso resta il turismo, a bassa qualificazione. E anche quel settore deve avere una visione più manageriale, maggiormente innovativa capace di creare valore aggiunto.  Vogliamo essere una isola dove si possa lavorare (bene) e non solo passare le proprie vacanze, scrivevo nell’editoriale che precedeva il Premio innovazione giusto una settimana fa. Crescono i servizi ICT e le posizioni tecnico-amministrative legate al PNRR, ma non abbastanza da trattenere una generazione che chiede futuro, non solo occupazione. È qui che la Sicilia entra in rotta di collisione con sé stessa: produce talenti in ecosistemi che non sono pronti a valorizzarli.

Eppure, mai come ora l’isola avrebbe bisogno di loro. Perché la Sicilia, che spesso immaginiamo immobile, sta attraversando una trasformazione tecnologica in pieno corso. L’export cresce. La ZES Unica accelera investimenti in filiere digitali, ICT e cleantech. Le energie rinnovabili potrebbero renderla una delle principali piattaforme energetiche del Mediterraneo. L’agroindustria, la manifattura avanzata, la logistica intelligente stanno già mostrando segnali di evoluzione.

Ma senza capitale umano qualificato queste opportunità rischiano di rimanere strutture vuote. O peggio, rischiano di essere intercettate da altri territori più preparati. È questo il punto che, come Innovation Island, vogliamo sottolineare da anni: la Sicilia non ha un problema di idee, ha un problema di esecuzione; non ha un problema di potenzialità, ha un problema di continuità.

Il dato demografico, allora, non è solo un indicatore sociale. È la metrica che ci dice se l’innovazione potrà mettere radici in Sicilia o sarà soltanto una stagione breve, incapace di modificare l’economia reale. Perché l’innovazione non arriva da sola: richiede ingegneri, data analyst, progettisti, tecnici specializzati, ricercatori, imprenditori, funzionari pubblici competenti. Richiede ciò che stiamo perdendo e che non stiamo aggregando come invece suggeriscono di fare Carlo Amenta e Sebastiano Bavetta.

In fondo, la domanda è semplice: di quale Sicilia vogliamo essere il giornale? Di quella che continua a raccontare partenze, o di quella che prova a costruire ritorni? Di quella che punta tutto sul turismo e sui suoi limiti strutturali, o di quella che immagina industrie digitali, imprese sostenibili, startup capace di scalare, energie rinnovabili che generano valore, e non solo impianti?

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