Chi sono i silver startupper (e perché ne sentiremo parlare sempre più spesso)

L’età media di chi fa innovazione si sta riposizionando e, sempre più spesso, il “piano B” di cinquantenni, sessantenni e settantenni è inventare qualcosa da zero. Sono uomini e donne che scelgono di dedicarsi all’innovazione, anche al di fuori di contesti metropolitani. Ne ha scritto recentemente TechCrunch, parlando di “silver startupper” ed “agetech” e l’argomento è tornato in evidenza sulle pagine de Il Sole 24 Ore, che ha approfondito con esempi di storie imprenditoriali “50+”.

Tra quelle storie c’è Massimo Luise, 51enne ferrarese che ha inventato e brevettato un cuscinetto di protezione ignifuga: oggi è alla guida di Markos, società impegnata a costruire sistemi di archiviazione che proteggono pergamene, libri, documenti e opere d’arte da fuoco, acqua e deterioramento, da Roma a Istanbul. E poi Susanna Martucci, a Vicenza, imprenditrice di prima generazione classe 1958, che si è inventata un lavoro da zero: ha recuperato gli scarti della produzione industriale e artigianale, per
riprogettare nuovi manufatti e farne oggetti di design di uso comune.

Il fenomeno abbraccia diverse tipologie di lavoro, anche a contatto con il pubblico: lo dimostra la storia di Anna Possi, 99 anni, nota come “barista più anziana d’Italia” che, dal 1958, trascorre le sue giornate dietro al bancone del suo bar a Nebbiuno (Novara). E, anche oltreoceano, la situazione è analoga: negli Stati Uniti, oggi, un’impresa su tre è avviata da chi ha 50 o più anni.

Per una startup avviata da un over 60, il tasso di successo è del 70%, mentre solo il 28% delle startup create dai giovani durano più di tre anni (lo dice il rapporto “The Longevity Economy” realizzato dall’Aarp and Oxford Economics). Al di là dei numeri, il dato davvero significativo è che l’economia reale delle startup o delle Pmi innovative sta virando verso figure mature, in controtendenza rispetto alla narrazione alla quale siamo stati abituati fino a oggi.

Non è solo una questione economica

E non è soltanto una questione di maggiore disponibilità economica: “Più che la semplice disponibilità di tempo e soldi – spiega Nicola Palmarini, direttore National Innovation Center for Ageing del governo inglese ed esperto di analisi delle generazioni – credo sia la presa di coscienza del proprio ruolo in questa nuova traiettoria di aspettativa di vita ad aprire scenari inesplorati e inaspettati. Oggi sappiamo benissimo di aver bisogno di sentirci utili, attivi, parte del contesto. Dare un senso alla nostra vita, avere un ruolo e un senso nella società, esserne parte integrata”.

Non mancano, inoltre, le implicazioni di carattere economico: “Poter fisicamente e psicologicamente lavorare significa anzitutto riconoscere il proprio contributo alla società di cui si è parte, poter produrre reddito, non gravare sulle pensioni e quindi sui giovani per dover finanziare i più vecchi. Significa anche avere capacità di spesa, permettere all’economia di rimanere in un ciclo attivo“, aggiunge Palmarini. Un trend, quello attuale, che proseguirà anche in futuro: si calcola che, nel 2050, ci saranno oltre due miliardi di persone over 60.

“È facile prevedere come sempre più imprenditori e innovatori saranno coinvolti a disegnare il loro stesso futuro. Non solo. Alla luce di quello che stiamo vivendo – in questa permanente capacità di interazione, connessione e accesso alla conoscenza che ci offre la tecnologiaassisteremo a un passaggio radicale: il vero svago sarà rappresentato dal lavoro creativo in una forma che ancora non possiamo immaginare”, conclude Palmarini.

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