Le virtù dell’imprenditore: ingegno, creatività, tenacia e umiltà epistemica
News - 02/08/2024
di Pierluigi Barrotta
Concentriamoci in una figura idealizzata di imprenditore, nel senso dell’ideal-tipo weberiano: l’imprenditore “puro”. Un puro imprenditore non va confuso con il capitalista, poiché non possiede propri capitali. Piuttosto, è una persona dotata di una visione, di una idea, e lotta per realizzarla. È un individuo che accetta senza esitazione la competizione, sicuro del proprio ingegno e delle proprie idee. Sono gli imprenditori i protagonisti dell’innovazione e del cambiamento.
Il profitto, tanto vituperato dai socialisti, almeno quelli di un tempo, non va confuso con gli interessi concessi a chi presta il proprio capitale. Piuttosto, è il premio che viene riconosciuto a coloro che per primi si accorgono di bisogni da soddisfare, introducono nuovi prodotti o nuovi metodi di produzione. Il profitto “puro”, al netto degli interessi sul capitale, è ciò che il mercato riconosce al puro imprenditore.
Ovviamente, nella realtà, l’imprenditore è colui che rischia non solo giorni e notti di fatica per avviare e consolidare la propria impresa, ma anche almeno in parte il proprio capitale. Tuttavia, l’idealizzazione che ho introdotto serve per comprendere i motivi per cui molti economisti liberali hanno voluto, insieme alle lodi della lotta e della competizione, tessere le lodi del profitto.
È questo il caso di Luigi Einaudi, che scrisse un famoso saggio precisamente in lode del profitto. In una delle sue Prediche inutili, Einaudi si espresse così sul profitto: «Il profitto è il prezzo che si deve pagare perché il pensiero possa liberamente avanzare alla conquista della verità, perché gli innovatori mettano alla prova le loro scoperte, perché gli uomini intraprendenti possano continuamente rompere la frontiera del noto, del già sperimentato, e muovere verso l’ignoto, verso il mondo ancora aperto all’avanzamento materiale e morale dell’umanità1».
Da questo brano, è evidente che Einaudi non guardasse al profitto solo da una prospettiva strettamente economica. Per Einaudi, il profitto era infatti soprattutto la ricompensa di una serie di virtù, senza le quali non ci sarebbe il progresso; virtù quali la creatività, intesa come ingegno e capacità di innovare, la tenacia necessaria alla realizzazione delle proprie idee, la prontezza a capire velocemente i problemi, insieme all’umiltà epistemica che consiste nel riconoscere che ogni piano di azione è fallibile e va costantemente rivisto.
Per capire la profondità concettuale della tesi di Einaudi, dobbiamo distoglierle il nostro sguardo dalle posizioni dell’equilibrio di mercato, su cui molta scienza economica si concentra, e capire perché un mercato dinamico, ricco di virtù imprenditoriali è sempre in disequilibrio.
Tradizionalmente, l’equilibrio concorrenziale è definito da una situazione in cui nessuna impresa ha interesse ad entrare in una industria dove il livello di produzione delle imprese è tale che il prezzo del prodotto è uguale al suo minimo costo unitario, ove il profitto è uguale a zero. Modifiche dei piani si avrebbero solo nel caso di cambiamenti esogeni, ad esempio dovuti a qualche innovazione. Senza cambiamenti esogeni, tutto rimarrebbe immutato. Una situazione che possiamo definire di riposo, in cui la lotta per l’innovazione viene a cessare.
Gli economisti liberali sono sempre stati polemici con questa nozione di equilibrio. Ludvig von Mises, ad esempio scrisse che «L’azione è scelta e lotta con un futuro incerto. Ma [in una situazione di equilibrio] non vi è scelta e il futuro non è incerto […]. Tale rigido sistema non è popolato da mortali che fanno scelte e sono soggetti ad errore. È un mondo di automi senz’anima2». Questi uomini senz’anima sono uomini privi delle virtù imprenditoriali sottolineate da Einaudi.
Due sono le situazioni di disequilibrio che richiedono le virtù dell’imprenditore. La prima situazione è stata in particolare sottolineata da un altro economista austriaco, al pari di Mises (in questo caso, nel senso della scuola economica definita “austriaca”): I. Kirzner. Gli studi di Kirzner si concentrano sulla conoscenza imperfetta e dunque sulla parziale ignoranza che caratterizza i disequilibri del mercato.
Se ad esempio un imprenditore si accorge che in un’area del mercato i prezzi sono più alti di quelli presenti in un’altra area, questi ottiene un profitto sfruttando il fatto che le transazioni disponibili non sono tra loro coerenti. Come egli scrive: «l’enfasi sull’elemento della prontezza di azione intende indicare che, lungi dall’essere paralizzati dall’inevitabile incertezza del nostro mondo, gli uomini agiscono sulla base di giudizi che riguardano le opportunità che sono state lasciate inesplorate da altri».
La sagacità dell’imprenditore, la sua prontezza a cogliere occasioni di profitto, sono tutti elementi fondamentali nella competizione del mercato; elementi che tuttavia sono presenti, come abbiamo visto, solo nei momenti di disequilibrio. Sono temi a ben vedere già presenti nell’opera di Hayek, soprattutto nell’enfasi hayekiana sull’economia dell’informazione, a cui Kirzner si è ispirato. La seconda situazione è stata invece sottolineata da Mises.
Negli scritti di Mises è certamente reperibile l’idea di profitto che deriva dal cogliere opportunità di arbitraggio, idea come abbiamo visto sviluppata da Kirzner. Più evidente è tuttavia l’idea che il profitto derivi da attività speculative: «come ogni uomo di azione – scrive Mises – l’imprenditore è sempre uno speculatore» .
La differenza è che la prima nozione di profitto è legata alla conoscenza imperfetta e all’ignoranza, mentre la seconda è connessa all’incertezza. Mentre il profitto che deriva dalla prontezza a cogliere opportunità di arbitraggio riguarda i prezzi esistenti in un singolo periodo, il profitto che proviene da attività speculative riguarda la discrepanza tra i prezzi di produzione esistenti al momento e i prezzi futuri attesi dei prodotti. In questo senso, le attività speculative richiedo il passare del tempo, e la necessità di rivedere costantemente, con umiltà epistemica, i propri piani di azione.
In entrambe le situazioni risultano essenziali le virtù dell’imprenditore.
1 L. Einaudi, In lode del profitto, in Prediche inutili, Giulio Einaudi Editore, Torino 1959, p. 194.
2 Ludwig von Mises, L’azione umana, a cura di Tullio Bagiotti, Torino, UTET, 1959 (1949), p. 243.
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